Le infinite forme bellissime degli spermatozoi. Terza parte: evoluzione all’opera

spermatozoi

Esistono miriadi di forme diverse di spermatozoi, una per ogni specie animale. Che cosa ci possono insegnare queste cellule sull’evoluzione? Dopo aver spiegato la teoria, vediamo qualche caso pratico

Nella puntata precedente abbiamo visto che l’anatomia comparata degli spermatozoi può essere un utile strumento per ricostruire le relazioni evolutive tra i diversi gruppi e chiarire incertezze nella collocazione sistematica. Qui vediamo qualche caso pratico, e analizziamo le tante domande ancora senza risposta sull’incredibile varietà di queste cellule.

Tutti i platelminti, o vermi piatti (tenie e affini), sono accomunati dal possedere spermatozoi nei quali l’axonema è modificato in un modo particolarissimo: al posto dei due microtubuli centrali hanno un’unica grande struttura tubulare, così caratteristica che da essa deriva il nome di Trepaxonemata dato oggi al phylum. Un gruppo di animali storicamente incluso nei platelminti, gli aceli e forme affini, hanno, a seconda delle specie, flagelli con axonema 9×2+2 (il modello standard), 9×2+0, o 9×2+1, dove ‘1’ sta per un tubulo centrale singolo, ma completamente diverso da quello degli altri platelminti.

Gli spermatologi avevano da tempo notato questa discrepanza, che suggeriva che gli aceli non potessero essere platelminti, e finalmente analisi genetiche e molecolari[1] hanno riconosciuto la loro posizione basale nella filogenesi degli animali, ben lontana da quella dei platelminti.

I pentastomidi o linguatulidi sono un phylum comprendente 130 specie tutte parassite dei vertebrati. Per molto tempo il piccolo gruppo è stato ritenuto di affinità incerta, in seguito è stato avvicinato agli artropodi, poi lo splendido lavoro dell’anatomico di Copenhagen Karl Georg Wingstrand[2] ha messo in luce la straordinaria somiglianza dello spermatozoo dei pentastomidi con quello dei crostacei branchiuri. Lavori molecolari successivi hanno confermato l’idea di Wingstrand, e ora i pentastomidi sono generalmente inclusi nei crostacei.

Nel 2001, un gruppo di ricercatori della Repubblica Ceca pubblicò un’analisi filogenetica nella quale l’affermazione “forte” era che i mizostomidi – un phylum incertae sedis di parassiti o commensali degli echinoderni, ritenuto dai più affine agli anellidi – non fossero in realtà anellidi, bensì andassero raggruppati, assieme a cicliofori, rotiferi e acantocefali, in un unico phylum chiamato prosomastigozoa [3]. Tale suggerimento era basato su analisi sia morfologiche che molecolari, ed era sostenuto, fra l’altro, da qualche carattere degli spermatozoi. Il loro nome impronunciabile era infatti derivato dal fatto che tutte le specie del gruppo presentavano spermatozoi ‘capovolti’, e cioè con il corpo basale del flagello in avanti, che si trascina dietro l’intero spermatozoo. Purtroppo, nella straordinaria inventiva dell’evoluzione, altri modelli di spermatozoi sono capovolti in modo simile, e a dire il vero altri caratteri dello spermatozoo dei diversi gruppi dei quali era richiesta l’integrazione non collimavano. Tuttavia, ricerche successive e la costruzione di alberi filogenetici basati su solide basi molecolari hanno confermato almeno uno dei raggruppamenti di questa analisi: possiamo oggi dire che il phylum degli acantocefali non esiste più, gli acantocefali sono ‘collassati’ all’interno dei rotiferi, e che tale dipartita è stata propiziata… anche dalla forma degli spermatozoi.

Quando un tipo solo non basta

In modo indipendente, qua e là nella storia evolutiva degli animali, è comparso il fenomeno del dimorfismo (più raramente polimorfismo) degli spermatozoi, cioè la produzione di tipi diversi di spermatozoi da parte del medesimo individuo. Poiché tali ‘invenzioni’ sono state indipendenti l’una dall’altra, non è possibile delineare una regola generale che spieghi il fenomeno. Fra i gruppi più importanti che hanno adottato questa strategia si annoverano i lepidotteri (farfalle e falene), i molluschi gasteropodi (chiocciole e forme affini) [Fig. 2, nella prima parte], alcuni centopiedi, e gli anellidi oligocheti tubificidi (vermi acquatici assai comuni nei sedimenti del mondo intero) [Fig. 12 e 13., nella seconda parte]. Sono state avanzate numerose ipotesi per spiegare la presenza di dimorfismo spermatico [4] nei vari gruppi animali: facilitazione alla fecondazione, filtro per eliminare spermatozoi di altri maschi, nutrienti per lo sperma, riempimento a basso costo degli organi genitali delle femmine per impedire la fecondazione da parte di altri maschi. Queste ipotesi, naturalmente, non sono mutuamente esclusive, ed è possibile che più d’una concorra a spiegare il fenomeno in phyla diversi.

Gli spermatozoi dei due tipi sono spesso differenziati in molte delle caratteristiche, ma di solito solo uno dei due tipi è in grado di fecondare, ed è chiamato euspermatozoo. L’altro dei due tipi non contribuisce geneticamente alla produzione di figli, al punto che spesso è privo di materiale genetico (nelle farfalle, ad esempio, il nucleo viene espulso durante la spermiogenesi), ed è perciò chiamato paraspermatozoo. È dunque chiaro che l’animale che “decide” di produrre paraspermatozoi, in qualche modo rinuncia ad investire nella riproduzione una parte delle sue cellule germinali, dunque deve avere vantaggi che in qualche modo lo compensino. In due dei gruppi menzionati, i molluschi gasteropodi e gli oligocheti tubificidi, sembra che la funzione principale dei paraspermatozoi sia quella del trasporto degli euspermatozoi verso la loro destinazione [Fig. 2 e 13]. Ciò avviene con modalità diverse nelle varie specie, e alcune soluzioni possono essere definite quantomeno fantascientifiche. In molte specie di molluschi gasteropodi, ad esempio [Fig. 2], il paraspermatozoo è una cellula enorme e priva di nucleo, dotato di un numero elevato di axonemi (fino a un migliaio!), che possono essere o interni alla cellula, che viene quindi trasformata in una lamina ondulante con l’aspetto di un enorme essere ciliato. Gli euspermatozoi si attaccano come aerei al terminale di un aeroporto e si fanno trasportare. La struttura nel suo complesso prende il nome di spermatozeugma. Negli oligocheti tubificidi – il cui rappresentante più noto è quel Tubifex che viene venduto nei negozi di acquario come cibo per i pesci – la situazione è invertita: anch’essi formano grandi (visibili a occhio nudo!) spermatozeugmi che servono al trasporto degli euspermatozoi, ma si tratta di strutture chiuse formate da un involucro di paraspermatozoi con i nuclei degenerati, e dunque praticamente solo delle lunghe code dotate di mitocondri, strettamente collegati fra loro, a formare una camera interna protetta. All’interno di questa camera sono alloggiati gli euspermatozoi che si fanno trasportare [Fig. 12 e 13]. Probabilmente, in prossimità dell’uovo, l’involucro di paraspermatozoi si rompe, lo spermatozeugma si lacera e libera gli euspermatozoi fecondanti.

Al termine di questa carrellata sulle “infinite forme bellissime” che assumono gli spermatozoi degli animali, è lecito chiedersi quali siano le spinte che guidano l’evoluzione di queste cellule. Perché gli spermatozoi hanno questa incredibile varietà di forme, ma questo non accade per altre cellule (fra cui le uova!)? Abbiamo visto che l’evoluzione degli spermatozoi è determinata dalla posizione filogenetica dell’animale che li produce e contemporaneamente dalla necessità “fisiologica” di fecondare correttamente. Detto ciò: perché una forma a cavatappi è stata inventata ripetutamente da vari gruppi animali? Perché gruppi così importanti come i nematodi (gli animali più numerosi sulla Terra) hanno spermatozoi privi di flagello, e così simili a una cellula corporea da renderne difficile il riconoscimento? Perché alcune strutture degli spermatozoi crescono a dismisura (ho già citato i 58 mm dello spermatozoo di Drosophila bifurca, aggiungo i 93 µm – quasi un decimo di millimetro! – dell’acrosoma di Branchiobdella astaci, un vermetto dalla lunghezza totale di un paio di millimetri)? Non conosciamo le risposte a queste domande. Forse esse si trovano nelle interazioni con le vie genitali femminili, ma:

«… il sostegno empirico per questa prospettiva è debole […] resta poco chiara la forma di selezione che guida la coevoluzione fra spermatozoi e femmine. Si tratta di selezione naturale, per esempio per prevenire l’ibridazione, aumentare l’efficienza di fecondazione o limitare la polispermia, o di selezione sessuale? e se è questa, in quale forma?»[5]

Leggi la prima parte Le infinite forme bellissime degli spermatozoi. Prima parte: un po’ di storia

Leggi la seconda parte Le infinite forme bellissime degli spermatozoi. Seconda parte: l’era della spermatologia comparata

Una versione di questo testo è stata pubblicata dall’autore, col titolo Infinite forme bellissime. Anatomia comparata degli spermatozoi, su Animot. L’altra filosofia. Amor, c’ha nullo amato… amar bestiale, Anno III, numero 1, giugno 2016, a cura Domenica Bruni e Marco Ferraguti.

Immagine in apertura: Gustaf Retzius, Public domain, via Wikimedia Commons

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Note:
  1. Iñaki Ruiz-Trillo, Marta Riutort, Timothy J. Littlewood, Elisabeth A. Herniou, Jaume Baguña, Acoel flatworms: earliest extant bilaterian Metazoans, not members of Platyhelminthes, “Science”, 283, 1999, pp. 1919-23.[]
  2. Karl G. Wingstrand, Comparative spermatology of a pentastomid, Raillietiella hemidactyli, and a branchiuran crustacean, Argulus foliaceus, with a discussion of pentastomid relationships, “Det Kongelige Danske Videnskabernes Selskab Biologiske Skrifter”, 19, 1972, pp. 1–72.[]
  3. Jan Zrzavy, Vaclav Hypsa, David F. Tietz, Myzostomida Are Not Annelids: Molecular and Morphological Support for a Clade of Animals with Anterior Sperm Flagella, “Cladistics”, 17, 2001, pp. 170-198.[]
  4. Irène TillBottraud, Dominic Joly, D. Lachaise, Rhonda R. Snook, Pollen and sperm heteromorphism: convergence across kingdoms?, “Journal of Evolutionary Biology”, 18, 2005, pp. 1-18.[]
  5. Scott Pitnick, David J. Hosken, and Tim Birkhead, Sperm morphological diversity. In Sperm biology: an evolutionary perspective, a cura di Tim R. Birkhead, David J. Hosken, and Scott Pitnick, Elsevier, Amsterdam, 2009, pp. 69-149.[]