Assassini per natura (forse)

Gli scimpanzè sono gli uninici a uccidere sistematicamente i membri della propria specie (a parte gli umani). Una nuova ricerca segna un punto importante a favore dell’ipotesi che questo comportamento abbia un valore di adattamento all’ambiente

Uccidere individui della propria specie è naturale? Esiste una predisposizione genetica all’aggressività favorita in determinati ambienti? Sono le domande che da sempre accompagnano la nostra specie, riguardo un’azione in teoria universalmente condannata, ma in pratica presente in tutti i tempi e in tutte le culture: l’omicidio.
A partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso un crescente numero di prove ha permesso di puntare l’attenzione sul ruolo dei neurotrasmettitori, noti come catecolamine, nei comportamenti di tipo violento e antisociale. Si è potuto infine determinare che alcune varianti genetiche di un enzima noto come monoaminossidasi-A (MAOA), che degrada le catecolamine, unite a una storia di abusi nell’infanzia, determinano una probabilità di commettere crimini violenti nei loro portatori statisticamente superiore a quella della popolazione generale.
Le ricerche che hanno portato a queste scoperte, insieme alle questioni etiche e giuridiche che hanno aperto, hanno guadagnato una notevole popolarità sulla stampa generalista, arrivando ad essere utilizzate come base per la trama in almeno due popolari serie televisive a tema legale negli stati uniti. Ma, dal momento che per mettere in atto le loro velenose conseguenze sociali le varianti di MAOA devono essere accompagnate da una condizione tutt’altro che naturale, come un ambiente fatto di abusi infantili, rimane aperta la domanda se i loro effetti abbiano un senso in natura, o siano una stortura derivata dalla cultura umana.
Varie ricerche hanno stabilito che varianti dell’enzima MAOA analoghe a quelle presenti nella specie umana sono presenti in tutte le grandi scimmie antropomorfe e nelle scimmie del vecchio mondo (catarrine), ma non nelle proscimmie o nelle scimmie sudamericane (platirrine), facendo risalire le mutazioni a un antenato comune fra i primi due gruppi, situato intorno ai 25 milioni di anni fa. Nessuna ricerca ha tuttavia dimostrato in modo definitivo la propensione dei portatori non umani delle varianti a comportamenti antisociali, se non in esemplari stressati nelle condizioni artificiali di laboratorio.
Per cercare di comprendere in modo più approfondito il ruolo dell’uccisione di membri della propria specie Michael L. Wilson e i suoi colleghi, delle Università del Minnesota del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology e di altre università africane, europee, giapponesi e statunitensi, hanno svolto un’approfondita indagine sull’unica specie di primate oltre alla nostra in cui questo comportamento è stato sistematicamente osservato, lo scimpanzé (Pan troglodytes); mettendolo a confronto con le abitudini molto più pacifiche di un altro stretto parente della nostra specie: il bonobo (Pan paniscus). 
I primatologi sono divisi in due correnti di pensiero riguardo il significato da attribuire alle uccisioni perpetrate dagli scimpanzé: una parte ritiene che la violenza in questa specie derivi solo da alterazioni al loro habitat naturale causate dagli esseri umani. Ma altri ritengano che uccidendo i membri di comunità concorrenti, gli esemplari che mettono in atto questo comportamento aumentino la propria fitness acquisendo maggiori risorse alimentari e potenzialità di riprodursi.
Gli autori dell’articolo hanno esaminato le osservazioni sul campo di 18 comunità di scimpanzé e 4 comunità di bonobo, protratte per 50 anni, che hanno portato all’osservazione fra i primi di 158 uccisioni (fra osservate direttamente, ricostruite e sospette) mentre un solo caso (sospetto) di uccisione di un proprio simile si è verificato nello stesso periodo fra i bonobo. Non ha destato eccessiva sorpresa scoprire come la maggior parte degli aggressori, così come delle vittime, erano di genere maschile; e che la stragrande maggioranza degli episodi violenti erano avvenuti in scontri tra diverse comunità.
Per ottenere informazioni più approfondite i ricercatori hanno cercato quindi di stabilire una correlazione statistica fra il numero di uccisioni fra gli scimpanzé e sei variabili ambientali. Tre di queste variabili sono state considerate dagli autori come dovute all’azione di disturbo antropico sull’habitat: la possibilità di procurarsi cibo da fonti umane, l’area di territorio protetta disponibile alla comunità e la probabilità di un contattato diretto con esseri umani, e tre sono state ritenute esclusivamente ecologiche: profilo genetico degli aggressori, rapporto fra i due sessi nella comunità e la densità di popolazione su un territorio. L’equipe di ricerca è così arrivata alla conclusione che le variabili di tipo ecologico sono quelle che meglio giustificano le uccisioni osservate; mentre l’effetto del disturbo da parte umana appare poco significativo.
Appena pubblicato, la ricerca ha avuto un discreto apprezzamento da parte della comunità scientifica, ma ha suscitato anche qualche reazione negativa. Le critiche più pesanti hanno riguardato l’idea di considerare uguali uccisioni osservate e presunte, così come la decisione arbitraria, da parte dei ricercatori, di considerare le variabili “rapporto fra sessi” e “densità di popolazione” come esclusivamente ecologiche, piuttosto che come conseguenza, almeno in parte, di attività umane. La questione, almeno per gli scimpanzé, resta quindi aperta.
Cosa ci dice questa nuova ricerca riguardo la violenza umana? Tutto e niente: condividiamo antenati comune tanto con i bellicosi scimpanzé che con i bonobo, che sono assolutamente pacifici pur possedendo le famigerate varianti del gene MAOA. Se mai arriverà la prova definitiva che gli scimpanzé sono resi assassini nati dal loro ambiente, converrà ricordare che la nostra storia evolutiva non è la loro e che ciò che un habitat fa di una specie, e dei suoi geni, riguarda quella specie e solo quella. Possiamo condividere con gli altri primati un generico meccanismo di aggressività, ma il motivo per cui questa aggressività diventa omicidio, sia biologico o culturale, è solo nostro.
Daniele Paulis
Riferimenti:
Wilson ML, Boesch C, Fruth B, Furuichi T, Gilby IC, Hashimoto C, Hobaiter CL, Hohmann G, Itoh N, Koops K, Lloyd JN, Matsuzawa T, Mitani JC, Mjungu DC, Morgan D, Muller MN, Mundry R, Nakamura M, Pruetz J, Pusey AE, Riedel J, Sanz C, Schel AM, Simmons N, Waller M, Watts DP, White F, Wittig RM, Zuberbühler K, Wrangham RW. Lethal aggression in Pan is better explained by adaptive strategies than human impacts. Nature. 513(7518):414-7. doi: 10.1038/nature13727